Bikepacking in 35mm

Bikepacking in 35mm

La reflex analogica di papà era riposta in una borsa, a propria volta riposta dentro ad un armadio, da chissà quanti anni. Più o meno da quando in casa nostra (sua) è arrivata la prima macchina fotografica digitale.

E’ stato Andrea, a cena, non più tardi di qualche mese fa, a mettermi un tarlo nella testa: “Tu scatti già in analogico, vero?”, “No”, “Beh, dovresti cominciare a farlo. Ti piacerà”.

I tarli non mi piacciono tanto: l’indomani chiamo il babbo e, l’indomani ancora, la reflex, con il suo 50 mm, il suo tele e la sua borsa rettangolare nera con la cerniera arrugginita, sono già sul tavolo della mia cucina.

Si apre il cassetto dei ricordi: lunghe serate tra amici di famiglia, e non, a guardare diapositive. Quell’apparecchio dal rumore inconfondibile che proiettava luce e si risucchiava i contenitori delle diapo. Dio solo sa quante volte si inceppava. Dalle bici allo sci, dalla formula 1 al mare e alla pesca. Di tutto un po’. Il babbo se li sviluppava i rullini, altroché. E aveva pure l’ingranditore per le stampe. Roba d’altri tempi, si direbbe. Ma che tempi!

Ed ora, chi li recupera più i rullini? Ho sempre avuto la “fissa” della fotografia in bianco e nero. Dopo un paio di passaggi nei negozi e nei tabacchini locali, ho presto appreso che reperire rullini di questo tipo in “presenza”, come si dice ai tempi del Covid, è oramai come reperire, nei noti luoghi di vacanze, una bicicletta tra le elettriche. Raro, quasi impossibile.

Ad ogni modo, sempre per via della questione dei tarli di cui sopra, dopo qualche sbattimento, anche il rullino è ora sul tavolo della mia cucina. Non resta che cominciare a scattare.

Quale miglior occasione che la due giorni esplorativa che abbiamo in programma con Michela? E’ qualche mese che abbiamo già disegnato tutto su carta, ma il momento per partire non si era ancora mai trovato. I bambini, il lavoro, la sua ernia. Insomma, come si dice dalle nostre parti, “en casin”.

Ma alla fine si va. Son solo due giorni, ma con questi presupposti, riuscire a partire senza intoppi è già un successo. Come sempre diciamo, che vuoi che sia farsi 6.000 metri di dislivello rispetto a far combaciare tutto il giorno prima della partenza?

Eh sì, il giorno prima, quello in cui di solito un bambino si ammala o, comunque, un paio di colpi di tosse li deve per forza dare pur di farti cagare un po’ sotto.

Questa volta no, e alle 8.30, dopo che le magiche porte della scuola materna si sono aperte, si parte con rigorosa faccia da bimbominchia verso il Passo Brocon e l’inizio del nostro tour. Le nostre MTB sono allestite come per le occasioni migliori, quelle dei trail unsupported che tanto ci piacciono: frame bag (borsa da telaio per chi parla come mangia) e front bag (borsa attaccata al manubrio) con le inseparabili butterfly del mitico Renzo (lo conoscete Renzo? Lui sì che di viaggi ne sa qualcosa è che ai suoi tempi i social non c’erano ancora). Contenuto: un po’ di tutto. Tenda, piumino, materassino e sacco a pelo. Quelli che pensano di essere fighi, non possono dormire in struttura.

Dulcis in fundo, marsupio da 4 litri comprato per l’occasione. Al suo interno, reflex analogica e… macchina digitale. Ero così “certo” dell’esito dell’esperimento che non potevo fare a meno del backup digitale. Tutto ciò per la felicità di Michela che, ad ogni sosta foto, con stoica pazienza, ha sopportato le doppie pose.

Si diceva del passo Brocon, sostanzialmente il primo vero GPM di giornata. Lungo la via, sinistri cartelli annunciavano la chiusura della strada, per cantiere forestale, al km 20, direzione Valle del Vanoi, manco a dirlo, la nostra di direzione… Cominciamo a ripassare le regole adottate dopo la tempesta Vaia del 2018, quella che ha raso al suolo i nostri boschi: ad ogni cantiere forestale, il ciclista uomo manda avanti la ciclista donna la quale, ottenuto facilmente il permesso al transito dal cortese operatore boschivo, solo a quel punto richiama il menzionato ciclista uomo nel frattempo nascostosi dietro ad un cespuglio. Il metodo, più volte testato e quasi infallibile, questa volta è stato però ripassato invano: la discesa dal Passo Brocon a Canal S. Bovo, studiata solo su carta e nonostante dubitassimo persino della sua esistenza, smarcava il cantiere e si rivelava forse la più bella sorpresa della due giorni. Un’interminabile singletrack, tutto da fare in sella, con un fondo spettacolare. Chiaro che, detto così, uno potrebbe chiedersi: come fa a non essere conosciuto o praticato un simile tracciato? Beh, presto detto: non è che la via sia facilmente intuibile così come poco intuibili sono gli umori dei proprietari della “casere” (baite) nei cui giardini si transita.

Ed è qui che entra in gioco la seconda regola: farsi sempre amici i proprietari fondiari e, nel dubbio che siano proprio loro, farsi amica qualsiasi persona si incontri lungo il tracciato. E’ così che conosciamo il fungaiolo Luca il quale, dopo un solo minuto di conversazione, ci parla di tale Germano e tale Paolo nonchè di tutta un’altra serie di confinanti, dando per scontato che i nomi di questi personaggi fossero a noi noti. Insomma, buon viso a “cattivo” gioco e si prosegue imperterriti.

Raggiunto Canal San Bovo, via verso il Lago di Calaita non senza aver appurato il fatto, qualora ve ne fosse ancora la necessità, che la pianificazione su carta è fuffa rispetto a metterci le ruote. La prova del nove: qualche bella e non prevista rampa sterrata al 30%. Altro che ernia. Qui partono i dischi come missili. Occhio a chi sta dietro.

Il Lago di Calaita si presenta in tutto il suo splendore. La folla non c’è più. Lo sfondo della Catena del Lagorai è una cornice mozzafiato così come mozzafiato è il tragitto che conduce sino a S. Martino di Castrozza.

Da qui la strada per il Passo Rolle è nota ad ogni appassionato. Delle nuvole ci guardano minacciose. La sentenza di Michela (“non farà una goccia”) è la miglior garanzia che da lì a brevissimo prenderemo tanta acqua. E così è stato. In fin dei conti, a noi la pioggia piace. Le facce degli automobilisti che ci superavano nella loro via per il passo, con gli indumenti che certamente sapevano di carbonella e braciole, erano tutto un dire. Avrebbero dovuto pagarmi fior di quattrini per salire in auto o in navetta e rinunciare a quel momento sulla mia bici. Sì, le navette: apprendo che funziona così. Come se non bastassero le bici elettriche, ci sono anche le navette. Viaggi su e giù a portar anche “ciclisti” o recuperarli in cima alle salite se han freddo o son bagnati. Ci estingueremo ed è giusto così.

Rolle, Baita Segantini, giù verso la Val Veneggia all’ombra delle Pale, Paneveggio e poi su al Lusia per una strada costellata di piccole baite in perfetta e rara armonia con il territorio in cui sono collocate.

Rifugio Lusia, cena squisita in compagna di gestori altrettanto squisiti e, non distantissimo, notte in tenda. Le temperature non sono più quelle di agosto, la quota non è quella di Jesolo, ma è sempre tutto molto figo.

Mattina svegli abbastanza presto e giù ancora verso Paneveggio. Qui un dilemma al primo cartello: dar credito alla tracciato studiato a casa o proseguire per la strada indicata dal cartello medesimo? Manco a dirlo, via verso la strada da noi ipotizzata. Possibilità di successo? Scarse, ma siam qui per provare. Fortuna questa volta dalla nostra parte e “taglione” degno di nota. Perla n. 2 del tracciato.

Ci ricolleghiamo con la strada principale e, ad attenderci, nuovo cartello che sadicamente ci informa di un altro cantiere forestale in corso. Galvanizzati dai recenti successi, proseguiamo a testa bassa. La nostra presunzione ci costerà almeno un paio d’ore di “ravanate” ed una sezione di tour completamente da eliminare.

Tutto ciò senza considerare che il nostro punto interrogativo di giornata, ma anche dell’intero giro, è il Passo Sadole, a quanto pare, ciclisticamente mostro a 4 teste. On line le opinioni sono veramente divergenti. Per noi, scelta obbligata per tornare a casa.

Raggiungiamo il Rifugio Monte Cauriol dove Tommaso, il disponibilissimo gestore, tra una fetta di torta e l’altra, ci rinfranca. Racconta che il passo è pedalabile per buona parte. I turisti tedeschi, maggiori frequentatori dello stesso, ne sanno qualcosa, dice. Le anticipazioni si rivelano corrette.

Il portage non è eccessivo, quantomeno per chi, come noi, non è un purista e non disdegna qualche bel tratto bici in spalla, se non altro per riposare e far respirare il culo. Approfitto dei ritmi lenti (più lenti dei già lenti) per un po’ di foto. Gli scenari meritano. Un po’ meno le pedalinate sui polpacci saltando da un sasso all’altro.

Il passo è “conquistato” e la discesa di ritorno verso la Valle del Vanoi, a tratti complicata a tratti meno, ci riporta in luoghi a noi noti. Da “casa” ci separa infatti solo la strada sterrata verso il Passo Cinque Croci, la vista sulla Val Campelle e su Cima d’Asta e le birrette di Malga Conseria e del punto d’arrivo al Rifugio Carlettini.

In sintesi: una traccia, 2 giorni, 150 km, 6000 metri di dislivello, un’ernia, un rullino 36 pose in B&N fatto avvolgere dal babbo perchè la sola idea di procedere in autonomia e perder tutto mi terrificava, un temporale e due mtb elettriche (scherzo).

Della suspense di quando è arrivato a casa il rullino sviluppato e le foto stampate vi parlo un’altra volta.

Foto: Ildebrando Lazzarotto
Testo: Michela Dalcastagnè e Ildebrando Lazzarotto