Across the Atlas

Across the Atlas

Qualche ora di aereo, taxi e bicicletta e ci ritroviamo, in meno di mezza giornata, da una grande città italiana ad un’ampissima distesa di colline sassose in un altro continente.

Il contrasto è così netto.

Guardandosi intorno tutto è nuovo, ma questo tutto è fatto di niente.
Un luogo non luogo, dove regna solo il rumore del vento e il picchiare del sole.
Siamo elettrizzati, eppure, a tratti, sento nello stomaco una sensazione sorda, mi ricorda che non sto guardando su uno schermo uno dei soliti video.

Sono qui, fisicamente,
in mezzo a tutto questo niente che mi riempie gli occhi.

É una sorta di allarme che mi ricorda di stare attento ma di godermi tutto. Continuo a ridere e me lo tengo per me, sicuro che anche gli altri stiano sperimentando qualcosa di simile.

La sveglia alle tre per prendere l’aereo comincia e farsi sentire, sicuramente la stanchezza amplifica la sensazione di straniamento.
Non vediamo persone o animali da ore, il telefono non ha campo. Per sottrarci al vento che sferza il paesaggio, abbiamo piantato la tenda e cucinato la cena in un buco incavato nel fianco di una collina.

L’unico svago che possiamo permetterci prima di crollare nel sonno è arrancare fino in cima alla collina per goderci gli ultimi raggi di sole.

Dietro la collina ci sono solo altre colline, brulle e roventi di tramonto, il vento tira forte e il cappuccio della giacca sbatte rumorosamente rendendo difficile riuscire a sentirci mentre proviamo a chiacchierare.

Finisce che restiamo in silenzio a guardare l’orizzonte.
È un momento così semplice che è perfetto, non mi serve nient’altro.
Forse una birra fredda.

Picchietto ripetutamente il dito sullo schermo. Nessun risultato, un nero omogeneo che sembra prendermi in giro. Tengo premuto con più energia del necessario i pochi tasti dello smartphone ma ancora nulla, lo sento bollente tra le mani e lo ripongo arrabbiato. Vada per il Garmin, pedaliamo sereni lungo un’evidente pista fino ad un bivio.

Prendiamo a destra, ma è sbagliato, torniamo indietro e proviamo a sinistra, anche stavolta l’indicatore si distacca progressivamente da quella lineetta colorata che ci dà tanta sicurezza, torniamo indietro ancora.

La traccia sta esattamente nel mezzo delle due opzioni.

Siamo atterrati ieri e abbiamo già un telefono fuori uso, che anche da acceso non aveva ricezione, e un Garmin che ci intima di inerpicarci su un ripido crinale. Sono le nove di mattina e picchia già un sole tremendo che ci spinge a riflettere sul worst case scenario: persi in mezzo al nulla, senza possibilità di comunicare, con poco più di un litro d’acqua a testa.
Osserviamo il paesaggio con calma, la forma delle colline e delle linee sullo schermo, ne discutiamo un po’ e imbocchiamo a sinistra.

Finisce che era la strada giusta.
E il telefono a metà giornata è risorto.

Qui è tutto terribilmente secco.

I sassi sono ovunque, grossi e dal profilo spigoloso, perfetti per squarciare una gomma. Via via più piccoli, formano uno strato instabile in cui le ruote affondano.
Conduco la bicicletta come fosse un cavallo selvatico, indirizzandola con decisione e limitando i danni quando decide di andare dove vuole lei.
Sul lato destro della strada c’è un salto di qualche metro e al di sotto una ripida scarpata che fa decisamente venire voglia di andare piano e non sbagliare le curve.

Ogni tanto vedo qualche minuscola pianta, secca anche lei, e irta di spine.
O qualche fiorellino che, per non esagerare, è della stessa tinta gialla del terreno. Tutto è secco, eppure di acqua qui ne deve passare tanta, o ne deve essere passata.

Le valli sono palesemente scavate da fiumi invisibili, la strada stessa in alcuni punti è spazzata via dalla forza di ipotetici torrenti che scorrono in profondi canyon. Superare questi ostacoli è esaltante solo al primo incontro, dal secondo in poi è solo una seccatura, la bici pesa sulle spalle, le scarpe slittano sulla ghiaia.

Oltre al solito caldo infernale.

Comincio a pensare che il gravel sia sopravvalutato e che l’asfalto in fin dei conti non sia così male. O potevamo anche andare al mare.

L’uomo davanti a me cammina spedito, continua a girarsi e farmi cenno di seguirlo lungo il vicolo sterrato. Mi indica una delle tante porte che punteggiano le pareti dei bassi edifici irregolari. La porta, chiusa con un grosso lucchetto, è in lamiera pesante, verniciata sommariamente di un azzurro acceso e non lascia intendere il suo contenuto.

Una volta aperta capisco che è uno dei preziosi e misteriosi “punti di ristoro” che abbiamo segnato sulla mappa. Uno sgabuzzino di un metro quadro, che cela, nella penombra, pareti completamente ricoperte di una miriade di piccole confezioni multicolore.

L’uomo ci mostra un po’ tutto quello che ha, parla solo in arabo ma la comunicazione a gesti e parole incomprese ci rende chiaro che il nostro pranzo avrà un menù quantomeno stravagante: un melone, yogurt da bere usciti da un frigo dalla dubbia efficacia, plum-cake, patatine, dell’ottimo pane fresco e sgombro in scatola.

Il momento è piuttosto assurdo, tre occidentali, vestiti in maniera bizzarra, che pasteggiano seduti per terra. I locali, che ci osservano con espressioni rilassate ed amichevoli, continuano la loro vita quotidiana tranquilla e sonnolenta, sotto pesanti strati di vestiti che li coprono da capo a piedi. I bambini invece si avvicinano di più, incuriositi e divertiti dal nostro aspetto e dai nostri mezzi.

Ogni giorno consumiamo circa 10 bottiglie d’acqua, più di 100 bottiglie durante l’intero viaggio, avvolte a gruppi di 6, da un’ulteriore pellicola in plastica.
Tolto il pane e la frutta tutto il resto del cibo che consumiamo è confezionato nella plastica, o se va meglio nell’alluminio. Inizialmente infiliamo i vari incarti dentro alle bottiglie vuote e le stipiamo nelle borse, ma sappiamo che dovremo liberarcene.

Qui di bidoni non c’è neanche l’ombra, in compenso il letto dei fiumi in secca, vicino ai villaggi, viene usato come discarica, dove nella maggior parte dei casi l’immondizia viene bruciata.

L’idea di abbandonare i nostri rifiuti ci pare impensabile, e per lavarci la coscienza li consegniamo nelle mani dei negozianti dove ci riforniamo, per loro pare non essere affatto un problema.
Ci sentiamo di aver fatto la cosa giusta, siamo più sereni, eppure sappiamo benissimo che, qualche ora dopo, le nostre bottiglie finiranno carbonizzate proprio lì dove avremmo potuto gettarle direttamente noi.

Così però abbiamo la coscienza pulita, ma solo in superficie.

Quando sulla mappa uno legge 40km di discesa, su asfalto, è facile prendere sottogamba la fine della tappa.
Poi si scopre che la discesa è al -1%, e controvento.

Quello che doveva essere un segmento di disimpegno, dove macinare km facili in poco tempo e senza fatica, diventa una parentesi frustrante e faticosa.
Nel giro di poche tappe ci è chiaro che le temibili salite su sterrato sono impegnative ma siamo psicologicamente preparati e le si mette alle spalle con facilità.

Sono invece le parti pianeggianti ed asfaltate, spesso noiosi collegamenti rettilinei tra segmenti più eccitanti del viaggio, ad essere deleterie per il morale della truppa.

Accucciato sul manubrio, cerco il più possibile di tenere lo sguardo a terra, per non vedere l’orizzonte che, pur pedalando forte, è sempre lì e non si avvicina mai.

Chi, come me, dice che dormire in tenda è il massimo, mente.
A dirla tutta è una gran seccatura.
Devi riempire le borse con tutto il necessario per essere autosufficiente e studiare la mappa in anticipo cercando di capire dove, in teoria, potrebbe essere logico campeggiare. A fine tappa, vorresti accasciarti su una sdraio, farti una birra ghiacciata godendoti il tramonto, una bella doccia e ordinare qualche prelibatezza al ristorante.

E invece no.
Sei stanco e sudato, e ti tocca di gironzolare a caccia di un fazzoletto di terreno adatto ad accogliere la tenda.
Una piazzola in morbido prato inglese è un’utopia, e più sei stanco e più il concetto di pianeggiante è labile.
Poi si monta la tenda, con una serie di automatismi che il corpo mette in atto in risparmio energetico, ignorando la fatica.

Chi non monta la tenda sta già “cucinando”, che siano le 17:30 o le 20 non importa. Alla sera ci toccano le buste, con l’aggiunta di altri alimenti random: tonno in scatola quando va male, pane e tajine di carne e verdura avanzata dalla sera prima, quando va bene.

Si mangia seduti in terra, scomodi, col vento che alza la polvere.
Eppure è sempre tutto delizioso.

A momenti ci sentiamo dei miserabili, avremmo potuto fare una vacanza rilassante, e invece no. Però, riempito lo stomaco, torna un momento di lucidità prima della sonnolenza, e guardandosi intorno è innegabile:
“ma in che posto pazzesco stiamo campeggiando?!”

E questo non ha prezzo.

Sono tre giorni che attraversiamo terreni principalmente aridi e dormiamo in tenda, oggi, finalmente, raggiungeremo un’oasi, ed un albergo!
Ogni sera fantastichiamo su questo luogo, sui suoi comfort e sulle birre ghiacciate che bramiamo. A dirla tutta non siamo neanche proprio sicuri che sia aperto.

La strada si inerpica guadagnando quota sul versante destro di una stretta valle. Poi dietro una curva l’oasi si rivela in tutta la sua meraviglia.
Migliaia di altissime palme crescono rigogliose su una serie di terrazzamenti in mezzo ad una piccola valle, coronata da compatte e rossastre cime granitiche dalle forme arrotondate e severe allo stesso tempo. Il paese si sviluppa in mezzo all’oasi, lungo una strada ombreggiata popolata di uomini, donne, bambini, cani, gatti, capre, mucche e uccelli, tutti indaffarati nella brulicante vita quotidiana di questo ecosistema.

Si scorgono, tra le palme, enormi vasche ricolme di acqua verde brillante e moltissime canalette in terra argillosa portano l’acqua, per gravità, in tutte le direzioni.
Questo posto è incredibile.
L’albergo è aperto, molto spartano, com’è giusto che sia, le birre non le hanno, ma un letto morbido e pulito, una doccia vera e un pasto abbondante su una terrazza panoramica sono quanto di meglio potessimo chiedere.

Il vento muove le palme come fossero un mare solcato da placide onde e i canti del muezzin rendono l’atmosfera ancora più ipnotica e rilassante.
Questo posto è davvero incredibile.

Qui la popolazione è per la maggior parte musulmana, e noi, senza pianificarlo, siamo arrivati in pieno Ramadan. Anche senza saperne assolutamente nulla è impossibile non accorgersi della portata di questo evento sulla vita delle persone. Non è una questione di giudizio, di giusto o sbagliato, si tratta di osservare una sfaccettatura ancora più autentica della cultura in cui siamo immersi.

Sono stupito nel vedere i volti stravolti delle persone, affamate e fiacche durante il giorno, dalle loro parole traspare che non è cosa semplice e in parte anche non gradita.

Eppure fa parte della loro cultura e chi sono io per dire che sia sbagliato.

Le stesse persone ci hanno accolto con un sorriso, portato un tavolo per farci mangiare, magari a pochi metri dalla moschea durante l’ora della preghiera.
Più volte ci capita, senza pensarci, di invitare ad unirsi a noi chi ci sta offrendo un tè o del cibo. Piccole cose di cui ci rendiamo conto sempre puntualmente in ritardo, eppure mai un rimprovero, mai uno sguardo storto.

Viaggiare a bici cariche ci ha sicuramente aiutati a scendere, ai loro occhi, dal piedistallo di occidentali benestanti ed essere accolti come curiosi vagabondi.

C’è grande rispetto in queste persone, una genuina voglia di accogliere il prossimo e farlo sentire a suo agio. La cosiddetta ospitalità marocchina.

Sono circa le due del pomeriggio e il sole è rovente come sempre.
Dovremmo trovare un punto di rifornimento acqua nel pomeriggio, dovremmo…

Più pedalo e più mi rendo conto che le nostre informazioni sono sommarie. Nel primo villaggio che attraversiamo non c’è traccia di negozi, e l’acqua corrente è fuori discussione per noi, per lo meno per ora. Ormai le mie borracce sono semivuote, come quelle dei miei compagni d’altronde.

Riesco a intravedere gli ultimi 200 ml di acqua tiepida attraverso la plastica sporca della borraccia. Penso che a breve troveremo un posto dove comperare dell’acqua, d’altronde se ce lo siamo appuntati da qualche parte lo abbiamo letto.

E se fosse un errore?
200 ml sono a malapena 2 sorsi.

Ho sete, ma non bevo, quel poco di acqua che vedo nella borraccia mi dà un briciolo di finta sicurezza. Sto zitto e pedalo, inspiro ed espiro con lentezza, tassativamente attraverso il naso.
Tengo le labbra ben chiuse e penso che se mi concentro abbastanza sulla poca saliva che si crea in bocca, posso imbrogliare il cervello con quella sensazione liquida, ma non funziona un granché.

Dopo una mezz’ora troviamo il ristoro e, presi dall’ansia, compriamo 3 casse d’acqua, 18 bottiglie, 27 litri.

La sete è una brutta bestia.

Una lunga serie di ripidi tornanti sterrati ci fa guadagnare quota velocemente, fino ad un altipiano a circa 1800 m.
Qui esiste solo un minuscolo villaggio, e le persone che gironzolano nei campi limitrofi, spesso accompagnate da un asino stracarico o da un gruppetto di capre, hanno dei lineamenti diversi, mi ricordano il Sudamerica, ma forse è solo suggestione.

Il villaggio è costituito interamente da piccole costruzioni in terra color ocra, in quella che potrebbe essere la piazza però, penzolano da una terrazza, una decina di tappeti di varie dimensioni e fantasie.
Sembrano in esposizione, mi chiedo per chi, visto che non pare una strada trafficata.
Veniamo attirati immediatamente dalle trame geometriche dai colori accesi e i locali se ne accorgono.

Per sedersi, alla sera, usiamo dei piccoli ritagli di telo in plastica, super leggeri e compatti. Nel giro di dieci minuti decidiamo però che il minimalismo non fa poi così figo, non come girare per il resto del viaggio con un tappeto in lana colorata, voluminoso e del peso di almeno un chilo, legato all’esterno delle borse.

È un’idea balorda, ma un tappeto preso qui, acquista un valore speciale, imparagonabile con una caccia al souvenir al mercato di Marrakech.

La signora con cui contrattiamo a gesti fa l’affare dell’anno, ma va bene così, ci mostra le sue scarpe bucate facendoci capire che le sostituirà e sicuramente anche il resto del villaggio beneficerà di questo piccolo gesto.
O forse siamo stati semplicemente raggirati, ma mi piace di più la prima versione.

Da lontano sentiamo un rombo sommesso e vediamo avvicinarsi una nuvola di polvere a velocità molto bassa.

Sul tetto un robusto portapacchi in acciaio ospita un volume incredibile di bagagli legati alla rinfusa e ad ogni dosso ci si aspetterebbe di veder collassare il telaio su se stesso sotto l’enorme peso. I finestrini sono foderati da polverose tendine di tessuto multicolore ma dal parabrezza riesco a contare, ammassati in un abitacolo privo di sedili, almeno una decina di uomini sorridenti, più alcune capre.
Le sospensioni sono inutilizzabili, schiacciate sotto l’enorme peso e ogni tornante, stretto e a picco sulla valle, viene affrontato con lentezza e perizia.

Qui, che si parli di carico o di estetica, la regola generale è DI PIÙ!

Passeggeri, animali e bagagli non hanno un posto prestabilito sul mezzo e la creatività è la chiave. Non di rado sul tetto, al posto dei bagagli, vengono trasportate alcune capre o una mezza dozzina di persone con le gambe a penzoloni, che ci incitano mentre li inseguiamo in bicicletta.


Vecchi furgoni e pick-up vanno per la maggiore, spesso verniciati e modificati seguendo un gusto tutto locale per la personalizzazione.

Il vento e la polvere sono due elementi molto fastidiosi, soprattutto se combinati. Se non puoi combatterli unisciti a loro.


Siamo in viaggio da giorni e ormai non ha senso farsi il fegato amaro, le biciclette sono luride, la catena, nonostante cerchiamo di lavarla ogni due-tre giorni, è perennemente secca e incrostata.

Anche noi ci concediamo una doccia ogni tre giorni ed è come rinascere, peccato che poi nel giro di poche ora sia tutto da capo.

I pantaloni neri, neri non lo sono più, nelle sacche e dentro la tenda c’è della polvere rossastra, visibile anche sui sacchi a pelo. I capelli sudati si impastano e spesso si percepisce la polvere anche in bocca, tra i denti.

Se non puoi combatterli unisciti a loro.

Questo villaggio è talmente piccolo che pare non avere nemmeno la moschea, spesso l’unico edificio colorato, riconoscibile a distanza.
Pedaliamo da ieri in mezzo al nulla e probabilmente qui non hanno nemmeno la rete elettrica.
Nella piazzetta ci accoglie un uomo, vestito con una tunica bianchissima, è agitato ma il suo sorriso sincero lascia trasparire le sue buone intenzioni.
Parlando un misto di inglese, italiano, arabo e francese ci invita a bere il tè in casa sua e ci fa accomodare in una stanza arredata soltanto con alcuni tappeti e molti cuscini.
Ci togliamo le scarpe e ci sediamo a terra, godendo dell’ombra e del fresco del pavimento. Prima di servirci il tè veniamo cosparsi di profumo e inizialmente restiamo sorpresi. Nell’aria aleggia un penetrante odore di capra, a cui i locali probabilmente sono abituati.
I maleodoranti invece siamo noi.

Reduci da tre giorni senza una doccia e tre ore di bici sotto il sole emaniamo un odore pungente, sicuramente diverso e insopportabile per loro.
Appena me ne rendo conto mi imbarazzo un po’, ma vedendo il sorriso e la naturalezza con cui è stato compiuto il gesto, ben presto me ne dimentico.
Su un basso tavolino ci viene servito il tipico tè alla menta, bollente e super zuccherato, due enormi forme di pane marocchino simili a delle pizze e tre ciotoline di miele, marmellata e olio d’argan.

Attorno a noi si forma ben presto un capannello di persone che ci salutano sorridenti e soddisfatte di vederci banchettare di gusto con il loro cibo.
Finito di mangiare chiacchieriamo a lungo senza capirci troppo bene, e al momento di partire il nostro padrone di casa ci saluta più volte con ampi gesti, augurandoci buona fortuna assieme a tutto il villaggio che, vestito a festa, si accinge a festeggiare la fine del Ramadan.

Il viaggio è agli sgoccioli e sappiamo di aver già lasciato alle spalle le zone più autentiche.
Oggi ci tocca salire il passo Tizi-n-Tichka, il più alto del Marocco, data la vicinanza con Marrakech è una classica meta turistica per chi vuole ammirare gli Atlas. La salita, mai troppo ripida, scorre piacevolmente, ma come per i passi alpini, è il valico in sé il punto più surreale.


Siamo accolti da una serie di costruzioni fatiscenti, sui cui muri campeggiano diversi strati di insegne dipinte a mano senza cancellare la precedente, cartelli sbilenchi e sbiaditi indicano caffè e wc palesemente chiusi. In mezzo al piazzale su un grande bancone sono esposti una miriade di finti fossili, visibilmente scolpiti, e una vasta collezione di minerali dai colori fluorescenti assolutamente improbabili.


Dalla porta dell’unico negozio aperto un uomo richiama a gran voce, in un misto di tutte le lingue, tutti i turisti che si fermano al passo.
Viste le fortissime raffiche di vento freddo entriamo nel negozio e ci offre un tè, chiede gentilmente se volgiamo comprare qualcosa e se abbiamo vestiti o penne da barattare con qualche souvenir. Estraggo dalle borse una normalissima penna biro che gli regaliamo, ci dice che la useranno i suoi figli per la scuola.

È disarmante vedere come un piccolo gesto, che a noi è costato meno di nulla, e che sicuramente non gli cambierà la vita, riempie il suo sguardo di gratitudine.

Dal Tichka, dopo l’ultima notte in tenda, non ci resta che raggiungere Marrakech. Abbiamo però un’ultima cartuccia da sparare: una deviazione dalla strada principale attraverso una valletta secondaria.
Avendola studiata su Koomot sembra fattibile, ma presenta una parte di sentiero in un canyon di cui non sappiamo nulla.


Dopo pochi ripidi tornanti si gode di un gran panorama pedalando su una strada pianeggiante dal fondo sterrato super compatto. Attraversiamo un minuscolo villaggio rurale, i bimbi che ci osservano curiosi, indossano tutti delle fluorescenti tute Balenciaga, il che dona un tocco surreale alla scena. Da qui sia la valle che la strada cominciano a scendere e si fanno più strette.


A fianco a noi scorre un ruscello vero e proprio, la ricchezza dell’acqua che scende dalle imponenti cime di oltre 3000 m che racchiudono la valle è evidente, tutto è verde e coltivato. Nulla a che vedere con l’arido paesaggio di pochi giorni prima. La strada diventa gradualmente sentiero, pedalabile prima, via via più sconnesso poi, fino a perdersi nel nulla. Il GPS ci farebbe proseguire esattamente dove ora scorre uno stretto canale irriguo, ci guardiamo intorno confusi e forse un po’ pentiti della deviazione. Sono le 17:30 e per prima cosa dobbiamo trovare un posto dove piantare la tenda, individuiamo a fatica una possibile traccia che si inerpica sullo sconnesso e ripido versante alla nostra destra e decidiamo di abbandonare le biciclette e fare un sopralluogo a piedi.


Poco dopo scorgiamo due ragazzi che ci osservano dall’alto, scopriamo che uno di loro parla inglese e dopo letteralmente un minuto ci offre di dormire nella rimessa degli attrezzi del campo di suo zio, situato in cima alla collina. Si propongono anche di aiutarci a recuperare le biciclette cariche, e dobbiamo davvero insistere molto perché il carico venga spartito equamente.


Ancora una volta l’ospitalità marocchina è disarmante.


Indosso scarpe da montagna con una buona suola, ma con la bici sulle spalle fatico a mantenere l’equilibrio sul sentiero sconnesso. Hicham invece, davanti a me con un’altra bicicletta sulla schiena, si muove con grande scioltezza indossando delle sgangherate ciabatte in gomma.

I ragazzi ci salutano, ceneranno al villaggio per poi tornare verso Marrakech con la famiglia. Noi invece restiamo soli, nel campo di uno sconosciuto, con le chiavi del capanno.
Siamo a circa 2000 m, l’aria è frizzante, da un po’ ormai sulle alte cime di fronte a noi stanno cumulando grosse nuvole minacciose.
Il capanno, non più grande di 3×3 m, ha una sola minuscola finestra, il pavimento è completamente ingombro di un sacco di roba che a primo sguardo definiremmo immondizia, punteggiata di cacca di topo, ma quando comincia a piovere prima e grandinare poi, siamo più che felici di avere un tetto sopra la testa.

Ci facciamo spazio per stendere i materassini, facendo grande attenzione a non sfiorare uno scatolone malandato in un angolo.

Dentro, ci è stato detto, ci sono delle api in una sorta di letargo.
“Just don’t touch it” ci ha ripetuto Hicham serenamente.

Noi abbiamo preso alla leggera la cosa, come la prenderebbe chiunque stia per dormire chiuso in uno sgabuzzino con un’arnia di api di montagna.

Ci ridiamo sopra, ma nel dubbio dormiamo con la porta socchiusa.

Alì, un marocchino di origini berbere, è il proprietario del Riad in cui soggiorniamo a Marrakech, rilassato e cordiale, parla italiano e da subito ci ha fatto sentire a casa.


Le biciclette giacciono ammassate da 2 giorni tra il grosso divano in pelle e il tavolo della colazione, nel bel cortile/soggiorno, fulcro della vita del riad.
Le scatole che abbiamo rimediato per imbarcare le biciclette sull’aereo sono piuttosto piccole e per fare in modo che sia tutto perfetto ci attende un discreto lavoro di tetris.


La moglie di Alì,come ci si aspetterebbe da una giapponese, è eccessivamente riverente e riservata mentre i 2 figli, di all’incirca 5 e 7 anni, superano ben presto la timidezza iniziale. Ci ritroviamo in un attimo con 2 piccoli assistenti dalla pelle olivastra e gli occhi a mandorla che, affascinati e divertiti, osservano ogni nostra mossa e vivono i preparativi come un gioco che rompe la monotonia delle loro mattinate.
Più che aiutarci si rincorrono e si nascondono sotto agli scatoloni ma troviamo una mansione da assegnargli quando scoprono il rumore dell’aria che esce a pressione dalle gomme premendo la valvola.
Pensavamo di intralciare con i nostri voluminosi preparativi e invece ci ritroviamo coinvolti in un’attività di babysitting alternativo.


Carichiamo le bicicette sul taxi pensando a quanto sarebbe bello continuare a pedalare sulla costa oceanica, o nel nord del paese, o nel sud alle porte del Sahara.


Sarà per la prossima volta, forse, Inshallah.


Foto di Denis Sassudelli e Bonvecchio Francesco
Testi di Bonvecchio Francesco

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